1.8 L’imperialismo fascista, il razzismo, la guerra di Spagna

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Il colonialismo italiano

Buona ultima fra le potenze europee anche l’Italia si impegnò in una politica coloniale, rivolgendosi all’Africa.

Ciò accadde ben prima del fascismo, e fin dalla fine dell’800 sanguinose guerre coloniali impegnarono l’Italia liberale.

Il primo insediamento coloniale in Africa risale addirittura al 1869, quando la società Rubattino (lo stesso armatore che aveva favorito l’impresa dei Mille) comprò dei territori in Eritrea, la baia di Assab, che cederà al governo Depretis nel 1882.

All’occupazione di Massaua nel 1885 seguirà la strage di 548 soldati italiani a Dogali, nel 1887. Costituite, con alterne fortune, le colonie in Eritrea e in Somalia, la disfatta di Adua (nel 1896) portò alla fine politica del presidente del Consiglio Francesco Crispi (1818-1901), un ex garibaldino divenuto accanito monarchico e reazionario.

All’opinione pubblica apparivano assurdi i costi (in termini di vite umane e di spese militari) della politica coloniale condotta da un paese che conosceva in quegli stessi anni l’arretratezza del Mezzogiorno e l’esodo forzato di milioni di emigranti. Fra il 1876 e il 1915 oltre 14 milioni di italiani furono costretti ad emigrare spinti dalla fame, verso gli Stati Uniti, il Sud America, l’Australia, etc.: è la cosiddetta “grande emigrazione”.

Migranti italiani alla fine dell'Ottocento
Migranti italiani alla fine dell’Ottocento, via Focus.it.

Tuttavia il liberale Giovanni Giolitti (1842-1928), che succedette a Crispi, continuò nella politica coloniale, rivolgendosi ora ai territori controllati dall’impero ottomano (Turchia) e in particolare alla Tripolitania e alla Cirenaica (l’attuale LIbia): fu la guerra italo-turca (29 settembre 1911-18 ottobre 1912).

Alla campagna propagandistica per la guerra partecipò anche il poeta Giovanni Pascoli (1855-1912), autore di un intervento intitolato “La grande proletaria si è mossa” (21 novembre 1911). Il socialisteggiante Pascoli rappresenta bene le assai diffuse giustificazioni “di sinistra” del colonialismo: la conquista coloniale veniva giustificata come missione civilizzatrice, oltre che positiva per i contadini italiani, i quali avrebbero avuto nuove terre da coltivare (come se in Italia non fosse esistito il latifondo e una immensa quantità di terre sottratte ai contadini e lasciate incolte).

Dopo la fine della Prima Guerra mondiale, l’Italia fu del tutto esclusa dalla spartizione delle colonie tedesche (che toccarono a Francia, Inghilterra e Belgio). Continuò il consolidamento militare della presenza italiana in Libia, in Somalia, in Eritrea: risale al 1928 l’uso di bombe chimiche contro gli insorti libici e nel 1931 viene impiccato il settantatreenne capo della rivolta Omar al-Mukhtar.  Gli sarà dedicato il film Il leone del deserto (1981, regia di Mustafa Aggad, con Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, Raf Vallone, etc.), un film censurato e mai distribuito in Italia, in quanto ritenuto “lesivo all’onore dell’esercito italiano”.

Nel 1935 iniziò la guerra di Mussolini contro l’Etiopia, uno stato indipendente riconosciuto dalla Società delle Nazioni, che – su istanza degli Inglesi – deliberò delle sanzioni economiche contro l’Italia. Le sanzioni, peraltro del tutto inefficaci, si trasformarono però in un successo propagandistico del fascismo (alla consegna di “oro alla Patria” parteciperà anche Benedetto Croce). In generale la proclamazione dell’Impero (9 maggio 1936) segna in Italia il punto di maggiore consenso al fascismo1.

Fra le atrocità della guerra spicca la strage della comunità monastica copta di Debra Libanos ad opera del viceré Graziani: 452 monaci e diaconi, dopo essere stati arrestati nel monastero, furono passati per le armi (secondo altre fonti i morti sono stati almeno 1.800-2.200). La chiesa locale era ritenuta animatrice della resistenza e il massacro doveva servire a punire un attentato contro lo stesso Graziani.

Nelle colonie venne applicata una legislazione apertamente razzista, e questo ben prima dell’alleanza con Hitler. D’altra parte il razzismo è sempre alla base di ogni colonialismo (a cominciare da quello inglese e da quello francese), perché l’idea stessa che un popolo abbia diritto di dominarne un altro ha come presupposto l’affermazione, razzista, della superiorità del colonizzatore rispetto alle popolazioni colonizzate.

Erano proibiti i matrimoni fra italiani e africani, era negata la cittadinanza italiana ai figli di matrimoni misti, e si svolsero dei vergognosi processi in cui le donne indigene sposate con italiani, magari da molti anni, per evitare il carcere dovettero auto-definirsi prostitute per giustificare la loro convivenza con un italiano. Il fenomeno del cosiddetto “madamato” fu la formula, ipocrita e infame, che definiva questi rapporti coniugali inter-razziali.

 Il colonialismo italiano non si fece mancare l’apporto di truppe indigene, i cosiddetti “ascari”, i quali erano chiamati a combattere (e morire) per l’Italia ma non potevano accedere al grado di ufficiali, indossavano una divisa diversa ed erano scalzi (si disse: per rispetto delle tradizioni locali).

Una vignetta razzista e misogina
Una vignetta razzista e misogina, via Fctp.it

Il colonialismo, specie quello fascista, fece un largo uso di una propaganda basata su argomenti sessuali, presentando l’impresa coloniale come una lecita e facile conquista delle donne africane. Il successo della canzone “Faccetta nera” (tuttora utilizzata dai neo-fascisti) rappresenta quasi l’emblema di questa aberrante proposta. Si incontravano in questa ideologia il più feroce razzismo, l’esito delle repressione sessuale cattolico-italiana e la più radicata misoginia.

Il giornalista Indro Montanelli, ha raccontato ancora in anni recenti, senza alcun pentimento e senza alcuna vergogna, di aver comprato e stuprato una ragazzina africana. Scrive Montanelli:

“Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie (…). Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più un ‘tucul’, cioè una capanna di fango e di paglia del costo di 180 lire. La ragazza si chiamava Destà, e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna e passati i venti è una vecchia.

Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli e ancor più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre) la rendeva del tutto insensibile. (…) Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi (…). Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamiamolo così – il loro ‘servizio’, sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni. Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre ‘bulukbasci’ (…) mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione.”2

Destà ebbe tre figli, il primo dei quali si chiama Indro (ma Montanelli ha negato di esserne il padre).

Statua di Montanelli a Milano imbrattata da un collettivo femminista
La statua di Montanelli a Milano colorata e commentata da un collettivo femminista, via Il Post.

La guerra di Spagna

L’Italia fascista e la Germania nazista parteciparono insieme alla guerra civile spagnola, scatenata da una sollevazione dei militari reazionari di Francisco Franco dopo la vittoria del fronte democratico alle elezioni del 1936.

Mentre Francia e Inghilterra si rifiutarono di sostenere la Repubblica, in nome della politica di appeseament (pacificazione) con i regimi fascisti, la Germania inviò 6.500 uomini (“legione Condor”) e l’Italia addirittura 70.000 “volontari” e ingenti forniture di armi e di aerei, in nome di una “crociata” anti-comunista benedetta anche dal Vaticano. Furono aerei italiani e tedeschi a compiere un micidiale “bombardamento a tappeto” (il primo nella storia) sulla città di Guernica (26 aprile 1937), città sacra e simbolo per i paesi Baschi.

Guernica Picasso
Il quadro Guernica (1937) di Pablo Picasso, via Wikimedia Commons

A difendere la Spagna dai fascisti si impegnarono l’URSS e – soprattutto – le “Brigate internazionali”, circa 50.000 uomini e donne, accorse da 50 paesi del mondo. Fra loro Hemingway, Octavio Paz, Orwell, Simone Weil, etc., mentre l’intellettualità del mondo si schierava con la Repubblica, da Brecht a Thomas Mann, da Einstein a Neruda, a Tagore. Nelle “Brigate internazionali” militarono anche antifascisti italiani come Carlo Rosselli, Randolfo Pacciardi, Emilio Lussu, ma molti furono i comunisti, come Luigi Longo “Gallo”, Vittorio Vidali, Giuliano Pajetta, Giovanni Pesce e Guido Picelli (che perse la vita in quella guerra). A Guadalajara gli italiani delle “Brigate internazionali” sconfissero le truppe fasciste del generale Roatta, con la parola d’ordine “Oggi in Spagna, domani in Italia!”.

La Repubblica spagnola, nettamente inferiore per uomini e armamenti, seppe tuttavia resistere eroicamente a Franco per ben tre anni. In Spagna era nato in embrione lo schieramento antifascista che, di lì a poco, avrebbe dato vita alla Resistenza.


1 I comunisti italiani non cedettero allo sciovinismo e si schierarono con l’Etiopia aggredita. Esemplare di questo internazionalismo è la figura di Ilio Barontini (1890-1951), un operaio ferroviere di Cecina (Li) che aveva partecipato alla fondazione del PCdI. Nel 1931 sfuggì al fascismo andando in esilio in Francia, e da lì a Mosca alla scuola militare, poi in Manciuria combattente nella guerriglia comunista di Mao Zedong contro l’invasore giapponese. Nel ’36 è ufficiale delle Brigate Internazionali in Spagna e combatte a Guadalajara. Nel ’38 fino al ’40 è in Etiopia a sostegno della resistenza anticoloniale e lì fra l’altro pubblica un giornale bilingue, aramaico e italiano. Tornato in Francia partecipa alla lotta contro i tedeschi e dal ’43 è nella Resistenza italiana. Eletto con il PCI alla Costituente e poi al Senato, morì in un incidente d’auto.

2 I. Montanelli, in “Corriere della Sera”, 12 febbraio 2000, p. 41.