2.9 I Servizi “deviati” e le stragi

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È terribile il tributo di sangue pagato dall’Italia al neo-fascismo ben oltre il 25 aprile del 1945. Chi dubita dell’attualità dell’antifascismo e dell’ANPI perché i nostri partigiani ci stanno via via lasciando, è invitato almeno a prendere visione di questi fatti. È una storia, anche recente, che non dobbiamo dimenticare

Per ricostruire le origini di queste storia neo-fascista possiamo giovarci della testimonianza diretta di un testimone oculare di assoluta attendibilità, Giulio Salierno (1935-2006).

Salierno visse in gioventù una storia personale terribile fatta di criminalità, neo-fascismo, carcere e Legione Straniera, ma seppe uscirne e divenire un importante sociologo e un uomo di cultura, punto di riferimento per tutta la Sinistra. Egli ricordò in un suo libro una frase detta nel corso di una riunione interna dell’MSI, a Roma negli anni Cinquanta, da Pino Rauti, al tempo dirigente giovanile della sezione di Colle Oppio e capo-corrente del MSI: «Attentati a uffici, magazzini, cinema, linee ferroviarie.

L’opinione pubblica, sempre scontenta e avida di tranquillità, si sarebbe indignata e avrebbe invocato l’ordine senza curarsi da quale parte sarebbe venuto»[1]. Nasceva la linea del “provocare il disordine per creare l’ordine”.

Materiali: L’archivio Rauti

Nel 2020, l’archivio personale di Pino Rauti (nel frattempo scomparso) fu donato dalla figlia alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, e salutato dal Direttore dott. De Pasquale con un’entusiastica dichiarazione piena di lodi che sottolineava l’importanza politico-culturale della figura di Rauti.

E ciò nonostante che nel novembre 1973 il movimento fondato da Rauti, “Ordine Nuovo” sia stato sciolto a seguito del processo in cui i suoi dirigenti furono accusati di ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista, subendo pesanti condanne.

Lo stesso De Pasquale, pur non essendo un archivista ma un bibliotecario, è stato poco dopo nominato dal Ministro Franceschini responsabile dell’Archivio Centrale dello Stato, che conserva fra l’altro i documenti relativi alle stragi fasciste. Solo la mobilitazione delle associazioni familiari delle stragi e una raccolta di firme che ha superato in pochi giorni la cifra di 25.000, ha indotto il Presidente del Consiglio a esautorare il dott. De Pasquale dalla gestione dei documenti relativi alla “strategia della tensione” e alle stragi, e a sostituirlo in questa responsabilità con il Segretario generale della Presidenza del Consiglio.

Così, in questo Paese, non solo si accoglie con tutti gli onori (in una sede peraltro del tutto impropria) l’archivio personale di un simile personaggio, ma si affida la gestione di documenti storici delicatissimi non alla professionalità di archivisti e bibliotecari ma al centro stesso del potere politico, cioè alla Presidenza del Consiglio. Come si dice: “Una toppa peggiore del buco”.

La continuità del personale fascista nei Servizi segreti italiani, ora intrecciato con i Servizi segreti stranieri, determinò per tutti gli anni della Repubblica una minaccia costante per la democrazia italiana, e fece dei nostri Servizi (cosiddetti “deviati”, ma questo aggettivo è ingenuamente ottimistico) non il luogo di tutela della vita democratica del Paese ma – al contrario – un fattore costante di depistaggi, provocazioni e veri e propri crimini.

Un convegno svoltosi all’Hotel Parco dei Principi di Roma (3-5 maggio 1965) rappresentò il luogo di elaborazione della successiva “strategia della tensione”. Al Convegno, sulla “Guerra rivoluzionaria” non convenzionale, organizzato da un Istituto di studi militari dello Stato maggiore della Difesa, parteciparono fra gli altri gli industriali De Biasi e Valerio, il deputato socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo, Renato Mieli (già “colonnello Merryl”) che, sembra, tenne una relazione, il senatore del MSI Giorgio Pisanò, Guido Giannettini del SID, il fondatore di “Ordine Nuovo” Pino Rauti, Carlo Maria Maggi (che sarà condannato per la strage di Brescia del 1974) e alcuni giovani neo-fascisti fra cui Stefano delle Chiaie e Mario Merlino.

Nel suo intervento (intitolato “Ipotesi per una contro-rivoluzione”) l’ex tenente delle SS italiane Pio Filippani Roncoroni propose uno schema di “difesa e contrattacco” per una “guerra rivoluzionaria non convenzionale”, e la relativa organizzazione, a tre livelli complementari ma impermeabili l’uno all’altro: un primo livello legale rappresentato da una rete che costituisca “schermo di protezione”, un secondo livello in grado di intervenire con “azioni di pressione” da affiancare come Difesa Civile alle forze dell’ordine, e infine un terzo livello “molto più qualificato e professionalmente specializzato”, “in pieno anonimato fin da adesso”, di uomini addestrati a compiti di “rotture” e “controterrore”.

Il Documento conclusivo è approvato all’unanimità: nasce quello che è stato definito “il partito del golpe”[2].

Si verificò un intreccio mortale dei settori eversivi italiani con la NATO, la CIA, i Servizi segreti stranieri, americani e britannici in specie (particolarmente interessati a impedire l’autonomia petrolifera dell’Italia, tentata da Enrico Mattei[3]). Un Paese che non dispone di propri Servizi segreti, autonomi e fedeli allo Stato, non dispone in realtà di una vera autonomia nazionale.

Una delle figure centrali dei Servizi segreti italiani negli anni della “strategia della tensione”, il piduista Federico Umberto D’Amato, rappresenta bene nella sua biografia questo nodo di rapporti, che valsero a D’Amato la medaglia della CIA (la Bronze Star), una del Congresso degli Stati Uniti (la Medal of Freedom) e la Legion d’Onore francese.

Materiali: Chi era Federico Umberto D’Amato

Federico Umberto D’Amato (Marsiglia 1919 – Roma 1996) è stato un dirigente della PS, direttore dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’interno dal 1971 al 1974.

Nel 1981 D’Amato risultò iscritto alla P2 di Licio Gelli, con la tessera n. 1643.

Per anni fu titolare (sotto pseudonimo “Federico Godio”) della rubrica gastronomica dell’”Espresso”, si devono a lui le guide gastronomiche pubblicate da quel Gruppo Editoriale.

Figlio di un questore di P.S., visse in gioventù tra Parigi e Roma. Entrato in polizia durante la Seconda guerra mondiale, fu dopo l’8 settembre 1943 anche agente alleato, lavorando alle dipendenze di James Angleton, capo del servizio segreto USA, l’OSS (Office of Strategic Services) e nel biennio 1943-1945 compì operazioni di controspionaggio.

Finita la guerra, nel 1945 fu assegnato all’ufficio politico della Questura di Roma, di cui negli anni ’50 divenne dirigente. In seguito diventò sovrintendente alla “Segreteria speciale Patto Atlantico”, l’anello di congiunzione dell’Italia con la NATO e gli Stati Uniti. Nel 1957 fu trasferito alla questura di Firenze, dal ministro dell’interno Fernando Tambroni.

Nel 1959 entrò all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno: qui compì tutta la carriera: capo della sesta sezione nel 1964. D’Amato descrisse la sua attività di spionaggio e provocazione nel documento La nostra azione politica, sequestrato nel 1974 nella sede dell’Aginter Press a Lisbona.

D’Amato ebbe la collaborazione del direttore del periodico “Il BorgheseMario Tedeschi e del movimento neofascista “Avanguardia Nazionale” di Stefano Delle Chiaie.

Promosso questore, divenne vice direttore degli “Affari riservati” nel 1969 e ne fu direttore dal novembre 1971 al 1974. Gli anni, dal 1969 al 1974, sono quelli in cui si precisa la cosiddetta “strategia della tensione e degli opposti estremismi”.

Interessante anche la figura del braccio destro di D’Amato in quegli anni: Silvano Russomanno, un passato nella Repubblica di Salò (373° Battaglione Flak), internato nel campo di concentramento per i repubblichini, e poi diventato altissimo funzionario dell’Ufficio Affari Riservati; secondo Paolo Morando (autore di Prima di piazza Fontana) Russomanno ebbe un ruolo decisivo nella preparazione della provocazione contro gli anarchici nell’estate del 1969.

D’Amato fu rimosso dal suo delicatissimo incarico solo nel maggio 1974, ad opera del ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, due giorni dopo la strage di Piazza della Loggia. Qualcuno ha fatto notare che dopo quella data cessa per anni la serie delle bombe fasciste, mentre si inaugura una diversa fase della strategia della tensione, rivolta alle formazioni armate di estrema sinistra.

D’Amato andò pacificamente in pensione dalla polizia nel 1984. Alla sua morte nel 1996, subito dopo i funerali, il giudice Carlo Mastelloni perquisì la sua casa in via Cimarosa a Roma. Già nel novembre 1995 il giudice Pietro Saviotti aveva disposto una perquisizione della casa e sequestrato documenti.

Il 17 agosto 1996 Aldo Giannuli, esperto nominato dal giudice Guido Salvini, ritrovò in una palazzina della circonvallazione Appia circa 150.000 fascicoli non catalogati, contenenti documenti ed altro materiale, come per esempio il quadrante del timer utilizzato per l’attentato del 9 agosto 1969 sul treno Pescara-Roma. Nel complesso si trattava di una sorta di archivio parallelo del Viminale, con reperti legati all’attività di spionaggio interno: un archivio segreto che non venne distrutto ma depositato alla rinfusa in una sorta di magazzino.

Federico Umberto D’Amato è stato accusato di aver svolto un’intensa attività di depistaggio delle indagini sull’eversione di destra e nella copertura dei responsabili delle stragi di quegli anni.

Secondo una testimonianza del 2007 (tutta da verificare) dell’ex leader di “Lotta Continua” Adriano Sofri, un dirigente degli apparati di sicurezza (secondo Sofri «affari riservati», come l’omonimo ufficio diretto da D’Amato) nei primi anni Settanta gli avrebbe proposto di agire insieme facendogli capire che voleva compiere un omicidio. Sofri rifiutò, tuttavia si guardò bene dal denunciare questo approccio criminale dei Servizi nei suoi confronti al tempo in cui si verificò, nonostante in quegli anni egli disponesse di un’organizzazione e persino di un quotidiano.

L’11 febbraio 2020 la Procura generale di Bologna, nella chiusura delle indagini, ha indicato Federico Umberto D’Amato come uno dei quattro mandanti, organizzatori o finanziatori della strage alla stazione di Bologna del 1980, insieme a Licio Gelli, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, tutti nel frattempo deceduti.

D’Amato fu insignito di una medaglia della CIA (la Bronze Star), una del Congresso degli Stati Uniti (la Medal of Freedom) e della Legion d’Onore francese.

L’influenza micidiale dell’ex repubblichino Licio Gelli (1919-2015) e della loggia massonica P2 nasce così, e vive per decenni, fino ai giorni nostri. A diciotto anni Gelli partecipò come “Camicia nera” volontario alla guerra di Spagna a fianco dei franchisti.

Aderì alla Repubblica di Salò, prima svolgendo il ruolo di collegamento con il Terzo Reich e poi impegnandosi in attività di doppio-gioco con i partigiani, collaborando anche con i servizi segreti americani e inglesi.

Immagine in bianco e nero della tessera di Gelli appartenente ad una delle organizzazioni dl PNF. La tessera è divisa in due sezioni, ricorda una carta d'identità. Sulla sinistra vi è la foto di Gelli in divisa e sotto di essa è scritto:
Posizione n. 23.375-P-D.
Sez. 42-RR-PT-573.
Sotto vi è al firma del funzionario.
Nella parte destra del documento sono riportate le seguenti voci: 
Il Fascista: LICIO GELLI (maiuscolo) di Ettore
Ricopre l'incarico:
Ispettore Nazionale Organizzazione Fasci Combattimento Estero
Direttore centrare 
Firma del direttore centrale
Data 23 Maggio 1941
Le autorità sono invitate a soddisfare ogni forma di assistenza richiesta.
Tessera di Gelli appartenente ad una delle organizzazioni del PNF (1941), da Wikipedia.

Massone, Licio Gelli giunse al grado di Gran Maestro Venerabile, dirigendo una loggia segreta denominata P2.

Immagine in bianco e nero di Licio Gelli inquadrato a mezzo busto con in dosso paramenti massonici. In particolare spicca un martelletto nella mano destra e indossa una fascia con simboli.
Licio Gelli in paramenti massonici, da Wikipedia.

Nel corso delle indagini sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, i giudici Colombo e Turone, nel maggio 1981, trovarono una lista di 962 iscritti alla P2 (certamente incompleta), che comprendeva fra gli altri 3 ministri del Governo Forlani, il segretario del PSDI, molti parlamentari (fra cui Fabrizio Cicchitto, al tempo socialista “lombardiano”), 63 alti funzionari ministeriali, 24 generali delle tre armi, 9 generali dei carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 5 prefetti, banchieri, diplomatici, magistrati, imprenditori, giornalisti (fra cui Maurizio Costanzo), editori (fra cui Angelo Rizzoli e Silvio Berlusconi), i capi dei Servizi segreti italiani e i loro principali collaboratori, Vito MiceliGianadelio MalettiAntonio Labruna.

Quando l’elenco della P2 emerse, Pecchioli (responsabile per il PCI dei problemi dello Stato negli anni dei Governi di “solidarietà nazionale”) dichiarò:

“Ignoravamo quale fosse la grande e diffusa potenza di quell’organizzazione, ne ignoravamo i disegni politici, le finalità e, soprattutto, il fatto che a quella loggia segreta fossero affiliati dirigenti di aziende, delle forze armate e di polizia, dirigenti dei servizi segreti, esponenti politici e funzionari dello Stato.”[4]

In quell’elenco di piduisti c’erano i nomi dei generali Giulio Grassini e Giuseppe Santovito, rispettivamente capi del SISDE e del SISMI, e del prefetto Walter Pelosi direttore del CESIS, l’organismo di controllo dei servizi segreti”.[5]

L’11 febbraio 2020 la Procura generale di Bologna ha indicato Gelli come uno dei 4 organizzatori e finanziatori della strage di Bologna (85 morti e 200 feriti) insieme a Mario Tedeschi, Umberto Ortolani, e Federico Umberto D’Amato.

Immagine in bianco e nero che ritrae diverse persone tra cui Licio Gelli e Giulio Andreotti in primo piano. Nessuno dei due guarda in camera, è una foto spontanea e Gelli sta parlando con Andreotti. Tutti i soggetti fotografati indossano giacca e cravatta.
Licio Gelli (al centro) con Giulio Andreotti (a destra), via Wikipedia.

Gelli dichiarò in un’intervista:

«Con la P2 avevamo l’Italia in mano. Con noi c’era l’Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia».

Le conseguenze si sono viste specie negli anni della “strategia della tensione” e del rapimento di Moro. Appartenevano alla P2 i membri della task force nominata da Cossiga per gestire il rapimento di Aldo Moro.

 In effetti, a partire dagli anni Sessanta i treni e le linee ferroviarie furono oggetto di una lunga serie di attentati da parte del terrorismo neofascista: 36 attentati in meno di trent’anni e 4 stragi (Freccia del Sud, Italicus, Bologna e Rapido 904). I morti sono stati 121 (di cui 85 solo a Bologna), i feriti 598[6].

Il primo tentativo di strage fu quello compiuto il 30 settembre 1967 alla stazione di Trento, quando fu segnalata sull’Alpen Express una valigia sospetta abbandonata. Due agenti la prelevarono e tentarono di portarla il più lontano possibile. Alle 14,44, zeppa di esplosivo, scoppiò tra le loro mani, uccidendoli. L’attentato fu addebitato al terrorismo sudtirolese.

Come si è visto, la “strage di Stato” di piazza Fontana, fu accuratamente preparata, mediaticamente e politicamente, ben prima del 12 dicembre 1969, da quegli stessi che poi la eseguirono e coprirono i responsabili[7]. Dopo la grande ondata di lotte del ’68-’69 si voleva proporre all’opinione pubblica (complice e protagonista la grande stampa padronale) l’immagine di una sinistra criminale che legittimasse una svolta autoritaria.

Era intanto esplosa a Reggio Calabria, la rivolta del “Boia chi molla!”[8], egemonizzata dal MSI e da Ciccio Franco, con il sostegno di industriali reggini come Demetrio Mauro (imprenditore del caffè) e dell’armatore Amedeo Matacena.

Anche Borghese tenne due comizi a Reggio Calabria, nell’ottobre 1969 e nell’agosto 1970. La rivolta costò sei morti, cinquantaquattro feriti, dodici attentati dinamitardi e ventitré scontri a fuoco, migliaia di arresti.

Ciccio Franco, nel frattempo divenuto senatore del MSI, fu processato a Potenza e condannato in primo grado a quattro anni, ma la sua condanna cadde in prescrizione.

Il 22 luglio 1970 (pochi giorni dopo l’inizio dei moti di Reggio, il 14 luglio) ebbe luogo la strage di Gioia Tauro, dove una bomba fece deragliare il “Treno del Sole”, Palermo-Torino, provocando sei morti (di cui cinque donne) e settantadue feriti.

La verità emerse solo ventitre anni dopo, quando alcuni pentiti confessarono che la strage fu eseguita su mandato del «Comitato d’azione per Reggio capoluogo» e che a portarla a termine fu un commando neofascista.

Quando, nel 1972, i metalmeccanici di tutta Italia si convocarono a Reggio Calabria per rivendicare il lavoro al Sud, i loro treni furono fermati dalle bombe, ben otto nella notte fra il 21 e il 22 ottobre.

Poche settimane dopo, il 28 agosto 1970, fu rinvenuta nella sala passeggeri della stazione ferroviaria di Verona una valigia abbandonata da cui proveniva un ticchettio di orologio. Notata da un sottufficiale della Polfer, fu portata in un luogo isolato dove esplose un’ora dopo.

In concomitanza con la preannunciata visita del maresciallo Tito in Italia, un grave attentato fu organizzato, il 28 marzo 1971, per colpire il treno diretto a Venezia, all’altezza di Grumolo delle Abbadesse.

Settantadue centimetri di binario furono tranciati da un ordigno. Il convoglio rischiò di deragliare, salvandosi solo grazie alla sua velocità.

Il 31maggio 1972 un’auto-bomba esplode a Peteano uccidendo due carabinieri e ferendone un terzo. Riconosciuto colpevole il neo-fascista Vincenzo Vinciguerra che è condannato all’ergastolo. Senza aver fatto mai ricorso in Appello, Vinciguerra nel 1984 denuncia ripetutamente il ruolo di “Ordine Nuovo” e “Avanguardia Nazionale” nelle stragi e le connivenze e i depistaggi delle istituzioni[9].

Il 7 aprile 1973, il militante di “Ordine Nuovo” Nico Azzi rimase ferito da un’esplosione mentre collocava maldestramente una bomba sul treno Torino-Genova-Roma (si era fatto notare con una copia di “Lotta Continua”, per depistare preventivamente le indagini e rivolgerle contro la sinistra).

Il giovedì 12 aprile 1973 (passato alla storia come “il giovedì nero di Milano”, una manifestazione del MSI “contro la violenza rossa”, che si sarebbe dovuta concludere con un comizio di Ciccio Franco (il leader dei moti di Reggio Calabria), fu vietata dalla Questura “per gravi motivi di ordine pubblico”.

La manifestazione, guidata dai deputati del MSI Servello e Petronio, si svolse egualmente, e fra l’altro invase con atti di vandalismo la Casa dello Studente di Viale Romagna e danneggiò l’istituto magistrale “Virgilio” di Piazza Ascoli considerato di sinistra.

Lungo via Bellotti, vennero lanciate due bombe a mano SRCM Mod. 35 contro le forze dell’ordine ferendo con la prima un passante e un poliziotto, mentre la seconda colpi al petto l’agente Antonio Marino, di 22 anni, uccidendolo.

Il 9 marzo 1977, furono condannati per questo due giovani neofascisti, Vittorio Loi e Maurizio Murelli. Le bombe risultarono fornite da Azzi, l’attentatore ferito sul treno.

La Camera dei Deputati negò l’autorizzazione a procedere (richiesta dalla Magistratura) per Servello, al tempo vice-segretario del MSI, e Petronio. 

Un attentato avvenne il 17 maggio 1973 in via Fatebenefratelli, davanti alla Questura di Milano, mentre si svolgeva la cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima: dopo che il Ministro dell’Interno Mariano Rumor aveva scoperto il busto dedicato al funzionario assassinato ed era andato via in auto, un grosso ordigno esplose in mezzo alla folla di persone ancora riunite.

L’effetto della deflagrazione fu devastante: 4 persone morirono (Felicia Bartolozzi, 60 anni; Gabriella Bortolon, 23; Federico Masarin, 30; Giuseppe Panzino, 63) e 52 rimasero ferite.

Materiali: L’attentato alla questura di Milano

L’obiettivo dell’attentato sarebbe stato proprio Mariano Rumor: nel movimento ordinovista il rancore nei confronti di Rumor era giunto al punto che si studiò il modo per assassinarlo fin dal 1970.

«Bisogna spazzare via Rumor» affermò Maggi, responsabile di “Ordine nuovo” del Triveneto con Carlo Digilio e Maurizio Tramonte. Maggi e Marcello Soffiati proposero tre volte, dal 1971 al 1972, a Vincenzo Vinciguerra di uccidere Rumor nella sua abitazione di Vicenza.

Sarebbe stato concordato che Mariano Rumor – dopo le bombe del 12 dicembre 1969, le quali secondo il Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana avrebbero dovuto essere solo dimostrative senza fare morti – avrebbe dichiarato lo stato d’assedio, aprendo la strada ad un governo militare, sostenuto dall’estrema destra, come era successo in Grecia con la dittatura dei colonnelli.

Invece, i 16 morti di Piazza Fontana avevano scosso l’opinione pubblica, i partiti erano pronti alla guerra civile e Mariano Rumor ci avrebbe ripensato: non dichiarò lo stato d’assedio, vanificando tutto il lavorio terroristico del SID, dell’Ufficio Affari Riservati, del direttore Elvio Catenacci, della CIA che finanziava il SID, dell’Aginter Press per mezzo di Guido Giannettini, di Stefano delle Chiaie di “Avanguardia Nazionale” e di Franco Freda e Giovanni Ventura di “Ordine Nuovo”.

Secondo i giudici (la tesi della seconda istruttoria, condotta da Antonio Lombardi, e del rinvio a giudizio disposto dal giudice istruttore Guido Salvini, confermati dalle testimonianze di Vincenzo Vinciguerra), a organizzare la strage fu il movimento neofascista “Ordine Nuovo“, ma le prove a carico dell’ex capo della cellula veneta non furono ritenute sufficienti, mancando «il tassello decisivo che avrebbe potuto fornire la prova ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ della responsabilità del Maggi» e «pur dando per scontato che quell’attentato rientrasse nei programmi di “Ordine Nuovo” occorreva pur sempre la prova di apporto personale del Maggi», poiché non si conoscevano i procedimenti dei singoli attentati compiuti compiute dalle organizzazioni eversive come ON.

Nel 2002 il generale Nicolò Pollari (ex direttore del SISMI), sentito dai giudici della terza Corte d’appello di Milano, ha confermato che Bertoli era stato un informatore del SIFAR prima e del SID in seguito. Il generale ha anche confermato che Bertoli ha avuto rapporti con i servizi segreti negli anni Cinquanta fino al 1960.

Nessuna conferma venne sul fatto che Bertoli abbia o meno ripreso a collaborare con il servizio nel 1966. Esiste, infatti, agli atti la copertina di un fascicolo con il titolo “Fonte Negro”, cioè il nome di copertura di Bertoli, datato 1966. Secondo tre ex ufficiali del SID, che avevano parlato della collaborazione di Bertoli negli anni Cinquanta (Viezzer, Genovesi e Cogliandro), la “fonte Negro” poteva essere stata riattivata nel 1966.

Pollari ha spiegato che con ogni probabilità quest’ultimo fascicolo è in realtà stato aperto dopo la strage alla Questura nel 1973, e che la data 1966 fa riferimento alle norme di archiviazione. (Da Wikipedia, consultato il 3/6/2022).

Tra il 1973 e il 1974 gli attentati sui treni furono ben 14 con una strage riuscita.

Questi gli episodi principali: il 7 aprile 1973, sulla linea Genova-Roma, con il citato tentativo di Nico Azzi, di “Ordine nuovo”, di innescare una carica esplosiva in una toilette del treno. Azzi rimase ferito dallo scoppio del detonatore e fu arrestato.

Il 29 gennaio 1974 a Silvi Marina, in provincia di Teramo, l’inatteso passaggio del locomotore di un treno merci tagliò la miccia dell’ordigno posto sui binari.

Il 21 aprile 1974 a Vaiano, in provincia di Firenze, la strage fu, invece, evitata grazie al blocco automatico dei treni in caso di interruzione dei binari. La carica esplosiva aveva, infatti, divelto oltre mezzo metro di rotaie.

La strage si compì, invece, il 4 agosto 1974, sul treno espresso Roma-Brennero, l’«Italicus», proveniente da Firenze e diretto a Bologna, a cento metri dallo sbocco della Grande galleria dell’Appennino. Il bilancio fu di 12 morti e 44 feriti.

Il terrorismo continuò ancora a colpire treni e linee ferroviarie negli anni successivi. Il 6 gennaio 1975 a Terontola 55 centimetri di rotaia furono divelti da una carica di polvere da mina.

Il 24 gennaio 1975 il neofascista Mario Tuti uccise a Empoli due poliziotti, il vicebrigadiere Falco e l’appuntato Ceravolo (un terzo resta ferito).

Mario Tuti, condannato a due ergastoli per tre omicidi e a 14 anni di reclusione, fruendo del regime di semi-libertà, parteciperà al Campo nazionale estivo del Blocco Studentesco (l’organizzazione giovanile di CasaPound) nel luglio del 2021[10].

 Il 12 aprile 1975, all’altezza di Incisa Val D’Arno, un ordigno fece sollevare quaranta centimetri di rotaia.

Il 28 maggio 1976 a Sezze (Latina) viene ucciso il giovane comunista Luigi De Rosa ed è ferito gravemente un militante di Lotta Continua, dopo un comizio del deputato del MSI Sandro Saccucci; questi dichiarerà di aver sparato in aria. Fuggirà in Inghilterra, poi in Francia, Spagna e infine in Argentina.

Condannato a 12 anni in primo grado e a 8 anni in Appello, Saccucci sarà prosciolto dalla Cassazione. Per i fatti di Sezze pagherà solo un guarda-spalle di Saccucci, il missino Pietro Allatta.

Il 6 febbraio 1977, la polizia disinnescò alla stazione Tiburtina di Roma sette candelotti di dinamite sull’espresso Napoli-Milano.

Il 5 settembre 1978, infine, cinque chili di esplosivo, tra le stazioni di Vaiano e Vernio, avrebbero dovuto scoppiare sotto la motrice dell’espresso «Conca d’oro», che viaggiava da Milano a Palermo. Rimasero feriti i macchinisti di un treno che passò al momento dell’esplosione.

9 gennaio 1979: i Nar assaltarono a Roma una radio del movimento, Radio Citta Futura, mentre era in corso la trasmissione del movimento delle donne. La radio fu incendiata e Giusva Fioravanti sparò alle cinque donne presenti ferendole (una molto gravemente).

In un’intervista rilasciata per un film della regista Donata Gallo (già redattrice di Radio Città Futura), Fioravanti si vanterà della perizia balistica da lui dimostrata nell’occasione[11].

Immagine in bianco e nero di Radio Città Futura dopo l'attentato fascista. Nell'immagine sono presenti due persone intente a valutare i danni, intorno a loro ci sono solo macerie.
Radio Città Futura dopo l’attentato fascista.

Quella del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna fu la strage non solo più importante sulle linee ferroviarie ma la più grave e sanguinosa nella storia della Repubblica.

Alle 10.25 la terribile esplosione.

Crollava un’intera ala della stazione, affollatissima per le grandi partenze estive, che a seguito della potenza micidiale dell’ordigno, prima si sollevava e poi ricadeva su se stessa. Il treno Ancona-Basilea, in sosta sul primo binario, veniva investito in pieno dall’onda d’urto.

Tra le lamiere fuse e contorte venivano estratti i corpi di decine e decine di persone. Settantacinque le vittime subito recuperate. Altre dieci moriranno nei giorni successivi. Alla fine si conteranno 85 morti (la più giovane aveva 3 anni, il più anziano 86), 74 italiani e 11 stranieri, oltre a 200 feriti.

Immagine a colori della stazione di Bologna dopo l'esplosione all'arrivo dei primi soccorsi: sono visibili solamente macerie alte quasi quanto un palazzo.
I primi soccorsi dopo l’esplosione alla Stazione di Bologna, via Wikipedia.
Immagine a colori della lapide con i nomi delle vittime e lo squarcio provocato dalla bomba.
La lapide coi nomi delle vittime e lo squarcio provocato dalla bomba, via Wikipedia.

Licio Gelli il Maestro venerabile della P2, condannato per il depistaggio delle indagini, dichiarò che gli imputati neofascisti erano del tutto innocenti dato che la strage era stata causata da un mozzicone di sigaretta che aveva innescato l’esplosione per colpa di una fuga di gas.

Importantissime, e sconvolgenti, le conclusioni a cui (anche grazie all’impegno straordinario dell’associazione familiari delle vittime) è giunto il processo:

“Nella strage sono coinvolti direttamente i servizi segreti militari nelle persone (condannate in via definitiva per depistaggio) del generale Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e dell’agente del SISMI Francesco Pazienza: i servizi segreti civili nella persona del capo dell’Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D’Amato, secondo sentenza di primo grado, uno dei mandanti dell’eccidio assieme al capo della Loggia P2 Licio Gelli); il senatore del MSI e direttore de “Il Borghese”, Mario Tedeschi; i neofascisti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini (in via definitiva), di Ordine Nuovo Gilberto Cavallini (primo grado), di Avanguardia Nazionale (Paolo Bellini, condannato in primo grado e già collegato con il Ros dei carabinieri di Mario Mori e con la ‘ndrina calabrese della famiglia Vasapollo).”[12]

Fioravanti e Mambro, mai pentiti dei loro crimini, si possono attualmente incontrare a passeggio nelle vie di Roma.

Non finì ancora. Il 12 febbraio 1981, otto mesi dopo la strage di Bologna, ben cinque kg di esplosivo furono rinvenuti sulla linea ferroviaria di Venezia, allo snodo di Porto Marghera. L’innesco non aveva funzionato.

Mentre il 9 settembre 1983, il treno 571 Milano-Palermo, mille passeggeri a bordo, in transito sul viadotto alto cinquanta metri del fiume Bisenzio, venne investito da un’esplosione, mentre incrociava un altro treno. Se l’atto terroristico avesse avuto pieno successo i morti si sarebbero contati a centinaia.

Complessivamente sul solo tratto Arezzo-Bologna di 120 chilometri, ben otto furono i tentativi falliti e tre le stragi riuscite: il 4 agosto 1974 sul treno «Italicus», il 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna e il 23 dicembre 1984, sul «Rapido 904», all’interno della Grande galleria dell’Appennino. Fu l’ultima, con 16 morti e 267 feriti.

Con essa si apriva un’altra stagione con l’avvio da parte di “Cosa nostra” di un’azione offensiva nei confronti dello Stato, che porterà alle stragi di Capaci, via D’Amelio e alle bombe del 1993.

La continuità era data dall’impiego di uomini e mezzi provenienti dall’eversione nera. Ne fa fede la condanna nel processo stralcio per la strage del «Rapido 904» del parlamentare missino Massimo Abbatangelo. Non fu condannato per la strage ma per aver detenuto e fornito esplosivi ai clan camorristici e mafiosi.

Dalle indagini risultò anche che l’esplosivo usato per la strage di via D’Amelio, che costò la vita al giudice Borsellino e alla sua scorta, fosse dello stesso tipo di quello del 23 dicembre 1984, mai utilizzato in precedenza da Cosa nostra.


[1] G. Salierno, Autobiografia di un picchiatore fascista, Torino, Einaudi, 1976.

[2] M.J. Cereghino-G. Fasanella, Il golpe inglese, Milano, Chiarelettere, 2016, p. 225 e sgg.

[3] L’ex-partigiano cattolico Enrico Mattei pagò con la vita la sua politica autonoma dai trust petroliferi, restando ucciso da una bomba posta sul suo aereo il 27 ottobre 1962.

[4] Ugo PECCHIOLI, Tra misteri e verità. Storia di una democrazia incompiuta, Milano, Baldini e Castoldi, 1995, p.135.

[5] Vendice LECIS, Lotta al terrore, Roma, Bordeaux, 2022, p. 90.

[6] Cfr. S. Ferrari, Da Trento a Bologna, storia degli attentati sui treni italiani, in “Il manifesto”, 2 agosto, 2019.

[7] Cfr. Cfr. P. Morando, Prima di piazza Fontana, La prova generale, Roma-Bari, Laterza, 2019.

[8] Si tratta di uno slogan di D’Annunzio.

[9] P. Morando, L’ergastolano, Roma-Bari, Laterza, 2021.

[10] Cfr. https://www.gonews.it/2021/08/04/mario-tuti-blocco-studentesco-campo/.

[11] Si tratta del film di Donata Gallo, Memoria a perdere (2007): https://vimeo.com/604726172

[12] D. Conti, L’esilo civile della strage più grave della Repubblica, “Il manifesto”, 2 agosto 2022, p. 14.