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Tesi 7 – Antimafia sociale

Pubblicato in Tesi

Le mafie sono parte integrante dell’autobiografia della nostra nazione. Tanto più oggi, perché tutte le forme e le modalità dell’accumulazione sono amplificate dalla pandemia, che pone scelte discriminanti. Le mafie stanno crescendo, in questo contesto, perché riescono ad organizzare, con i loro mezzi finanziari e con le ingenti risorse da riciclare, due processi criminali che incidono a fondo sia sulla ricostruzione della catena del valore, sia sulla formazione sociale.
Infatti, oltre alle sue forme tradizionali di espressione, la mafia agisce su due terreni: da un lato, con il “welfare sostitutivo” di uno Stato sociale iniquo e sfibrato. In quanti quartieri metropolitani impoveriti le mafie barattano soggezione di massa al malaffare, con l’organizzazione del circuito della sopravvivenza?

In secondo luogo basta prestare attenzione (cosa che il governo non fa) ai continui preoccupati rapporti della Guardia di Finanza e della DIA, che ci segnalano che la mafia S.p.a. sta acquistando azioni di aziende decotte da imprenditori che da proprietari diventano amministratori di quelle aziende, il cui pacchetto azionario è detenuto dalle mafie. Recenti rapporti scrivono del rischio concreto che, dopo la pandemia, circa il quaranta per cento dell’economia italiana possa essere grigia, nera, mafiosa. Le mafie stanno crescendo, anche se sparano meno. Per combatterle occorre incidere, allora, su forme dello sviluppo, rapporti di produzione e rapporti sociali. Anche lo smantellamento di tutto il sistema dei controlli istituzionali su opere pubbliche, grandi infrastrutture, ecc. che il sistema dei partiti di Stato sta portando avanti, genera faglie molto lucrose in cui le mafie agevolmente si insinuano. E’ una vuota chiacchiera retorica parlare di lotta alla mafia se il governo finge di non comprendere cosa sia oggi la “borghesia mafiosa”, “paradigma della complessità”, come analizza nei suoi studi Umberto Santino: organizzazione e sistema di rapporti, intreccio tra criminalità, comando sul territorio, accumulazione capitalistica, codice culturale e, insieme, consenso sociale. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha stimato che ogni anno vengono immessi nei circuiti finanziari globali capitali mafiosi per una cifra (sottostimata, probabilmente) compresa tra il due e il cinque per cento del Prodotto Interno Lordo mondiale. Con pandemia e PNRR, vi è il rischio che le mafie facciano affari come mai dopo la ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale.

Le mafie sono soggetti attivi del “sovversivismo reazionario” delle classi dominanti (da Portella della Ginestra in poi) e ben conoscono l’alternanza di potere, come tutti i sistemi di accumulazione. Non è delinquenza ed illegalità terroristica, se non in alcune fasi. E non è fuori dallo Stato, un “bubbone” in un corpo sano. La mafia è dentro lo Stato. Pio La Torre affermava: “se non c’è amministrazione, banca, corruzione politica, non c’è mafia. E’ attività criminale, non mafia”. Pagando con il sacrificio della vita, La Torre ci ha insegnato che la mafia si combatte certo con polizia e magistratura (quando non sono corrotte), ma soprattutto colpendone le ricchezze accumulate, con il sequestro e la confisca dei beni. Dopo anni di esperienze, dopo migliaia di beni confiscati, è indispensabile ed urgente mettere oggi a punto una normativa efficace e che sia da supporto ad enti locali che sono in grave difficoltà nella gestione, nell’indirizzo, nella destinazione dei beni stessi. Il fallimento della “legge La Torre”, con i beni che rientrano in possesso dei mafiosi, sarebbe uno smacco definitivo per la lotta antimafia.

Abbiamo imparato da Peppino Impastato, la cui figura, pensiero ed opere riteniamo di grande modernità ed insegnamento ancora oggi, che l’antimafia non è apparato retorico di sindaci in fasce tricolori o di politici che parlano di mafia solo nei comizi della domenica, ma “antimafia sociale”. Peppino ne è stato precursore ed attore, capace di costruire un nesso tra lotte studentesche, contadine, operaie. Fu ambientalista serio. Costruì spazi culturali e luoghi di socializzazione. Con “Radio Aut” osò praticare il sarcasmo per smantellare la sacralità del capomafia, per intaccare il suo comando sul territorio. Una vera ed efficace critica del potere mafioso.

Peppino fu ucciso perché la mafia si accorse che a Cinisi tutte le forze politiche, (dal MSI, alla DC, al PCI), lo consideravano un impaccio per la concordia del sistema di relazioni mafiose in cui erano coinvolte. Carabinieri e settori della magistratura “depistarono”, facendolo passare per un “suicida” o un “terrorista” saltato sulla bomba che stava depositando sui binari ferroviari. Alle sue esequie, nel 1978, giurammo che avremmo dimostrato la verità sull’uccisione per mano di mafia. Ci si è riusciti 21 anni dopo. Le ragazze e i giovani che oggi, tra mille difficoltà e repressione, praticano conflitto e mutualismo, spesso hanno Peppino nella mente e nel cuore, come militante comunista che lottò “per un altro mondo possibile”.

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