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Tesi 1 – Le catastrofi del capitalismo reale

Pubblicato in Tesi

La crisi sanitaria, economica e sociale prodotta dalla pandemia causata dal virus SARS Covid 19 ha evidenziato le profonde contraddizioni del capitalismo e in particolare dalle forme aggressive assunte nella ormai lunga epoca dell’egemonia neoliberista. Si tratta dell’ennesima manifestazione della crescita cumulativa del potenziale di catastrofe, come caratteristica intrinseca di un modo di produzione che pone al primo posto l’accumulazione di capitale e non i bisogni sociali. Sfruttamento, guerre, razzismi, disastri ecologici, fame, contraddizione di genere e patriarcato non sono residui di un passato in via di superamento, ma elementi costitutivi della “modernità” del capitalismo. Ne deriva la necessità di una critica radicale, indispensabile per immaginare alternative, ma anche per contrastare i processi in atto e limitarne gli effetti distruttivi.
L’affermarsi del capitalismo come unico mondo possibile non ha corrisposto alle promesse degli apologeti, anzi dalla fine degli anni ’80 si è assistito all’accumularsi di vere e proprie catastrofi. Assistiamo oggi alla convergenza su scala planetaria di crisi ecologica, crisi epidemiologica, crisi economica a carattere permanente, instabilità egemonica globale e guerre. La globalizzazione neoliberista ha riorganizzato le forme, gli spazi e le gerarchie dello sfruttamento imperialista e le catene del valore, ha svuotato le democrazie, smantellato i sistemi di protezione sociale, ha aperto la strada al risorgere di fascismi e ideologie razziste, nazionaliste e fondamentaliste.
Il virus SARS-CoV-2 ha la sua origine e si è diffuso nella realtà della globalizzazione neoliberista. In particolare nell’agrobusiness globale, che sta distruggendo foreste e aree rurali, compromettendo gli ecosistemi e le specie viventi, creando monocolture industriali vettori di trasmissione di malattie lungo i circuiti del capitale.

E’ emersa la contraddizione enorme tra la ricchezza dei Paesi capitalistici occidentali, con i loro potentissimi arsenali militari, e la loro incapacità di limitare gli effetti negativi sulla propria popolazione. L’impreparazione e la stessa gestione dell’emergenza sanitaria rappresentano una chiara prova del fallimento di un modello economico e sociale neoliberista che non dà la priorità ai bisogni sociali e alla salute pubblica. Le politiche di austerità, con i tagli e la privatizzazione della sanità, insieme allo strapotere del padronato che ha impedito una chiusura efficace delle attività non essenziali, hanno prodotto una strage evitabile in tutti i Paesi capitalistici avanzati.
Anche il virus ha offerto l’occasione per la riproposizione della logica di quello che Naomi Klein ha definito il “capitalismo dei disastri”, la crisi come occasione di ulteriore dispiegamento delle capacità predatorie del grande capitale. Lo si vede dalle forti resistenze delle multinazionali del farmaco alla necessaria sospensione della proprietà intellettuale sui brevetti per i vaccini e le cure anti-covid e dal cosiddetto “imperialismo vaccinale”. I Paesi occidentali hanno messo i fondi e la potenza degli Stati al servizio del profitto monopolistico di “Big Pharma”, impedendo la concorrenza dei farmaci generici e limitando la produzione in tutto il mondo. I profitti sono stati tutelati anche a costo di produrre milioni di morti evitabili nei Paesi poveri.

Per usare un’espressione di Engels il capitalismo continua a commettere “omicidi sociali” su scala planetaria. E anche nella pandemia si è manifestata la tendenza all’apartheid globale che riguarda i rapporti economici, come le questioni climatiche e il saccheggio di territori e oceani come testimoniano le migrazioni in atto che peraltro ricadono in maniera risibile sul continente europeo. Dal 2020 si è aggravata la catastrofe umanitaria rimossa della fame e della malnutrizione che, secondo i dati dell’ONU, colpivano nel 2018 una persona su nove – più di 821 milioni di persone – nel mondo. La promessa di pace del libero mercato globale è contraddetta dalle nuove forme di imperialismo, dal proliferare di guerre e dalla crescita esponenziale delle spese militari.
La stessa emergenza ambientale – il cambiamento climatico e più in generale il livello di inquinamento e devastazione del pianeta – è causata dal sistema di accumulazione del capitale. La crisi ambientale nei suoi molteplici aspetti (tra cui emissioni climalteranti, acidificazione degli oceani, estinzioni di specie e riduzione della biodiversità, interruzioni del ciclo dell’azoto e del fosforo, diminuzione della disponibilità di acqua dolce, perdita di foreste e inquinamento chimico) non può essere affrontata dentro una logica capitalistica che pone al primo posto una folle ragione economica che costituisce una minaccia permanente per l’ambiente. Il capitalismo, sistema di accumulazione del capitale basato sullo sfruttamento del lavoro e della natura, non riconosce limiti alla propria autoespansione. La ricerca senza limiti del profitto tende a travolgere tutte le considerazioni di ordine sociale e ambientale.

La enorme crisi economica causata dalla pandemia non fa che accrescere le tendenze alla polarizzazione sociale e alla crescita delle disuguaglianze, che si sono accentuate a partire dagli anni ’80. La concentrazione di capitale ha raggiunto livelli mai visti, la finanziarizzazione ha reso il capitale sempre più forte nella lotta di classe dall’alto, l’alta disoccupazione e una diffusa precarizzazione del lavoro caratterizzano in grado diverso tutti i Paesi sviluppati. L’accrescimento della produttività del lavoro nelle società a capitalismo avanzato si presenta, da un lato come aumento della disoccupazione e della sottoccupazione e, dall’altro, come maggior sfruttamento e perdita del potere contrattuale per gli occupati e le occupate, come Marx aveva predetto. Non viene finalizzato al conseguimento di obiettivi sociali, ma si traduce in crescita della disuguaglianza e della concentrazione del capitale e della ricchezza mentre si impoveriscono le società e si riduce il welfare.

L’accumulazione della ricchezza nelle mani dell’1%, resa popolare dal movimento “Occupy Wall Street”, è conseguenza di una tendenza storica nel processo di riproduzione del capitale non contrastata nell’ultimo quarantennio: il tasso di rendimento del capitale è sistematicamente più alto del tasso di crescita del reddito: i patrimoni ereditati subiscono un incremento continuo rispetto ai redditi da lavoro, con un conseguente aumento della disuguaglianza fra chi vive di ricchezza e chi vive di lavoro. Il capitale tende, di conseguenza, a concentrarsi in sempre meno mani, blindato nei fortificati templi della finanza, con il grande capitale che divora i piccoli. Basti citare il dato reso noto dal World Economic Forum di Davos: solo otto individui detengono la stessa ricchezza posseduta da 3,6 miliardi di persone, ossia di circa la metà della popolazione mondiale.

Alla concentrazione del capitale ha corrisposto una sempre più forte concentrazione del potere, che erode alle basi la stessa democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nei decenni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale. Durante la sua storia, il capitale ha sempre avuto la tendenza a produrre livelli sempre maggiori di disuguaglianza, ma nel corso del Novecento la “minaccia comunista”, la forza dei movimenti operai e socialisti, le lotte operaie e sociali, l’intervento redistributivo degli Stati avevano svolto una funzione di riequilibrio. Il capitalismo neoliberista ha usato tagli della spesa pubblica, tecnologie, disoccupazione, delocalizzazione e precarizzazione per accrescere lo squilibrio di potere tra capitale e forze del lavoro. Il neoliberismo ha prodotto oligarchie sempre più antidemocratiche ed una trasformazione autoritaria dei sistemi politici, sempre più impermeabili rispetto alle domande popolari e messi al servizio del capitale, per i quali appare fondata la definizione di post-democrazie. Mai così forte è stato lo strapotere delle multinazionali.

Per affrontare le crisi prodotte dal capitalismo in direzione della giustizia sociale e ambientale, c’è bisogno non solo di redistribuire la ricchezza, ma di mettere in discussione i rapporti di proprietà e la logica del capitalismo globalizzato, a partire dalla rivendicazione strategica di una drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Va recuperato il valore della pianificazione e della programmazione democratica che, come la lotta di classe, sono state demonizzate durante questi decenni di ubriacatura neoliberista.
Questa consapevolezza ci conferma con maggiore forza che è possibile praticare e rilanciare la rifondazione comunista solo sul terreno di un coerente anticapitalismo, inteso sia come sviluppo di pratiche sociali e di movimenti in grado di evidenziare le contraddizioni e di modificare i rapporti di forza, sia come capacità di prefigurare una concreta alternativa di società, una prospettiva ecosocialista. La realtà drammatica che si è determinata apre uno spazio ed evidenzia la necessità di un ampio movimento anticapitalista ed antiliberista che porti avanti un’offensiva sociale e culturale, contrastando l’egemonia di un capitalismo predatorio e socialmente irresponsabile.
Come ci insegna la storia del movimento operaio, neanche le riforme sono possibili senza lotte. Nessuna emergenza di per sé induce automaticamente cambiamenti positivi senza conflitto sociale e lotta politica. La crisi provocata dalla pandemia costringe i governi di tutto il mondo ad un aumento fortissimo della spesa pubblica, ma questa non costituisce di per sé un reale cambiamento delle coordinate di fondo delle politiche dominanti da un trentennio.
L’attualità del comunismo è data dalla radicalità dei problemi che l’umanità deve affrontare. La lotta per il socialismo del XXI secolo è l’alternativa al riprodursi di scenari di scarsità, violenza, devastazione e “barbarie”, mentre l’umanità avrebbe tutte le potenzialità per garantire la pace tra i popoli, un’esistenza degna a tutte/i e per porre le basi per un rapporto con la natura non autodistruttivo.

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